giulio iacchetti industrial design
giulio iacchetti industrial design
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nome: Ossi/Ossimori
cliente: Galleria Luisa Delle Piane
artigiano: Emmanuel Zonta
data: aprile 2018
crediti fotografici: Dimitri Dall’Agnol

L’ossimoro è un artificio usato in poesia per unire qualcosa (parole, idee, immagini,…) che normalmente è disgiunto perché inconciliabile nella dimensione della realtà. L’accostamento produce un inatteso circuito che conferisce a questa nuova unità “una sorprendente ‘energia di senso’ in grado di colpire l’ascoltatore o il lettore”. È dunque una figura retorica, un artificio che fa parte degli strumenti del mestiere dei poeti, che riguarda quel tipo di realtà che dimora nella mente di ogni creatore quando esercita il potere di unire cose apparentemente lontane facendole esiste in una dimensione ‘altra’, quella appunto del pensiero o della poesia.

Mi sono chiesta perché un designer sentisse il bisogno di scolpire ossi, perché si ostinasse a perseguire quest’opera di ricostruzione immaginaria, un po’ debitrice di Munari, delle sue pratiche allo stesso tempo logiche e fantasiose costruite cioè in base a un programma rigoroso ma anche libere di produrre immagini scollegate dalla realtà “naturale”. Un processo di creazione di forme verosimili ma dichiaratamente false a cui Giulio Iacchetti pensa da anni, magari non proprio ininterrottamente, cha agisce però come una musica in sottofondo. Questo processo d’invenzione formale e di messa punto che procede “per levare” e che lo accompagna da tempo è rivelatore di una disposizione aperta e di una libertà creativa ma anche di un bisogno di mettere in discussione il progetto stesso come atto creativo. È anche un modo per interrogarsi sui confini del progetto e sulla dilatazione continua dei campi in cui il designer si trova a operare.

Questo lavoro procede facendo affiorare le forme da profondità sconosciute, lasciandole emergere da un passato senza tempo che non è mai esistito, e liberandole dal peso che circonda l’uso, quasi a rievocare una storia solo immaginata e mai esistita se non nella fervida e instancabile immaginazione del suo creatore. A cosa alludono questi ossi? a quale essere immaginario appartengono? è forse la descrizione di un paesaggio interiore, un mondo sommerso che emerge appena, per frammenti, attraverso una pratica che richiede di porsi in una dimensione di ascolto?

In fondo questi simulacri di osso non si propongono di simulare la realtà ma di attingere a un’immaginazione dove tutto è possibile e capace di prefigurare nuove esistenze; e in fondo di parlano di progetto come fatto proprio dell’immaginazione e della fantasia perché, come ci ha ricordato Italo Calvino, Dante ci ha insegnato che “La fantasia è un posto dove ci piove dentro”.

Francesca Picchi

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